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lunedì 14 dicembre 2009

AMB - Clima, l’illusione ambientalista dell’auto elettrica


Roma, 14 dic (Velino) - “Se la politica non si fosse messa in mezzo, se in giro non ci fosse una voglia matta di salvare il pianeta, e se si fossero dati al momento giusto due colpetti sul popò a quei discoli che giocano a fare la rivoluzione verde e terrorizzano il mondo annunciando catastrofi, di veicoli elettrici poco o nulla si parlerebbe”. È quanto scrive il giornalista Renato Calvanese nel suo studio “La quarta volta dell'auto elettrica”, un briefing paper dell’Istituto Bruno Leoni dedicato all’illusione che i veicoli elettrici possano portare a una rivoluzione ecologica nel settore dei trasporti. “Le case automobilistiche non sprecherebbero tempo e materiali per costruirli – aggiunge Calvanese -, i giornali non consumerebbero inchiostro nel descrivere l’ultimo modello concepito per l’anno in cui saremo tutti morti, e noi non ci perderemmo in chiacchiere. Sarebbe un ottimo modo di risparmiare energia”. In questi giorni, alla conferenza sul clima di Copenhagen, l’auto elettrica occupa un posto d’onore. “Mister Obama, Monsieur Sarkozy e Frau Merkel sono pronti a stanziare cifre astronomiche per vederne circolare milioni entro il 2020, quando soltanto pochi si ricorderanno delle loro parole per misurarne il fallimento – scrive Calvanese -. La politica comanda e le case automobilistiche, attirate dal profumo del denaro pubblico, si rimettono all’opera: riesumano progetti dimenticati, grattano via la ruggine dai vecchi prototipi ammonticchiati in magazzino, gli istallano a bordo qualche diavoleria tecnologica all’ultimo grido, e al primo salone dell’auto in programma presentano collezioni già viste sfilare anni prima, modelli che dovevano entrare in produzione dieci anni fa e che nel 2009 avrebbero dovuto costituire il 10 per cento dell’immatricolato mondiale”.
Ma le promesse passate non contano e l’auto elettrica è alle porte da cent’anni. “Ogni tanto qualcuno fa irruzione nel saloon, fa un po’ di baldoria, grida al mondo che ha inventato l’auto elettrica, leva e il calice e sparisce nell’ombra – si legge nello studio -. La sbronza passa, la febbre dell’elettrico si cheta e ci si rende conto che gli unici che si sono lasciati convincere dall’avvinazzato di turno sono qualche amministrazione pubblica che spende soldi non suoi e qualche ecologista idolatra dell’ambiente più che del denaro”. Sono già quattro volte che l’auto elettrica viene spacciata come il mezzo di trasporto del futuro. La sua invenzione si deve al genio di Thomas Alva Edison all’inizio del Novecento. All’epoca a New York, Chicago e Boston c’erano un totale di 2370 auto: 1179 erano a vapore, 800 elettriche e solo 400 a benzina. “Le tre alimentazioni competevano per il primato, ciascuna presentando considerevoli vantaggi – ricorda Calvanese -. Il motore a vapore aveva la storia dalla sua parte: da tempo muoveva le navi, i treni, alimentava le industrie. Perché non poteva muovere anche le automobili? Era potente ed efficiente, poteva accelerare facilmente grazie al semplice uso di una leva e non aveva bisogno di marce. Le auto a combustione interna erano invece rumorose, puzzolenti e nonostante molti potrebbero non crederci, incredibilmente più inquinanti di quanto lo siano oggi. L’auto elettrica al contrario delle sue avversarie era silenziosa come un gattino, semplice da costruire e non puzzava. Non c’era niente da congelare o da bruciare, non c’erano gas di scarico o resti di materiali; una singola leva controllava la potenza e un’altra lo sterzo. Era senza dubbio l’auto più amata”.
Edison si gettò in questa competizione tra i tre mezzi di trasporto dichiarando: “Le auto a benzina non hanno legittimo posto nel traffico cittadino” seguito da un perentorio: “Ho risolto il problema dell’automobile. Ne posso costruire una talmente veloce che un uomo non può sedervi sopra. La velocità delle macchine a batterie può essere illimitata”. Nel 1909 diede l’annuncio che finalmente ce l’aveva fatta. “In un certo senso aveva ragione – ricorda Calvanese -: la carica durava fino a 160 chilometri, la batteria era più leggera della vecchia, poteva essere ricaricata nella metà del tempo, resisteva alla decomposizione e durava dalle tre alle dieci volte più di quelle acide”. Nel secondo decennio del Novecento l’auto a vapore si ritirò dalle scene e il duello si restrinse a due soli rivali: elettrico e benzina. Nel 1912 furono 34 mila i veicoli elettrici venduti. Ma l’anno successivo Ford iniziò a vendere il suo Modello T a soli 550 dollari (11.819 dollari d’oggi) e l’auto elettrica, incapace di trasformarsi in auto di massa, pian piano sparì dalle strade. “La guerra tra Michigan e New York, tra il cuore dell’America imbrattato dai fumi e l’East Cost dall’anima elettrica era terminata. Ford aveva vinto - scrive Calvanese -. Edison perse la sua corsa. Nell’impresa aveva speso milioni di dollari. Perlomeno erano i suoi. Quella fu l’unica volta che l’idea dell’auto elettrica venne totalmente sussidiata da fondi privati”.
Un ritorno di fiamma per l’auto elettrica si ebbe, sempre Oltreoceano, negli anni Sessanta e Settanta favorito dall’avvento dell’era hippy e dalla crisi petrolifera del 1973: pochi però i modelli venduti e anche esteticamente inguardabili. “La terza volta dell’elettrico iniziò nel pieno della psicosi collettiva per le piogge acide e per il buco dell’ozono – ricorda Calvanese -. In tutto il mondo fu fatto divieto di mettersi la lacca nei capelli, deodorarsi e impomatarsi”. Nel 1990 in America cominciò la caccia alle emissioni dei veicoli a motore e il Carb, l’Agenzia per l’aria pulita californiana, dettò per la prima volta la linea ai reparti di ricerca e sviluppo delle grandi motor company americane: entro il 2003 il 10 per cento delle auto vendute in California da parte delle sette più grandi compagnie avrebbe dovuto essere a emissione zero. “A distanza di anni gli obiettivi e i metodi del Carb appaiono capricci sotto forma di legge, fantasie di bambini travestite da studi e proiezioni . osserva Calvanese -. Il Carb desiderava l’auto a zero emissioni e pensava fosse pronta. Si sbagliava”. Anche il governo federale americano decise di muoversi per favorire la rivoluzione verde. Nel 1993 Clinton e Gore stanziarono 1,25 miliardi di dollari per stabilire la leadership americana nello sviluppo e nella produzione di veicoli economici, efficienti e a basse emissioni. “Il risultato di questo programma denominato Pngv, Partnership for a New Generation of Vehicles fu una barzelletta. Per contenere al minimo i consumi le case svilupparono dei prototipi che fin dall’inizio sapevano che non sarebbero mai riusciti a commercializzare. Accoppiarono infatti un motore elettrico ad un motore diesel facendo lievitare enormemente il prezzo finale del veicolo. Nessun modello fu avviato alla produzione”. Anzi, le motor company iniziarono a invadere gli Usa con i mastodontici Suv. “Tutte le previsioni sull’elettrica formulate negli anni Novanta risultarono sbagliate. L’auto elettrica morì una terza volta, sempre in America”, sottolinea Calvanese e “tanto grossa era stata la cantonata sull’elettrico che neanche a Clinton nel 2004, parlando degli standard delle emissioni tossiche delle auto venne più in mente di parlare di auto elettriche”.
Morta per la terza volta l’auto elettrica, si cominciò a parlare di quella a idrogeno (doveva essere pronta per il 2010 e invece di recente gli esperti hanno fatto sapere che non se ne parlerà prima di altri dieci anni) e di benzina tirata fuori, scrive Calvanese, “dal mais, dalle barbabietole, dalla colza, dalle palme, dai girasoli, dal bolo alimentare, dal pappone dei cani”. Oggi, rispetto all’epoca di Edison, esistono tanti modelli di auto elettrica che è pure difficile avere bene a mente di cosa si stia parlando. C’è quella ibrida elettrica, che abbina un piccolo motore elettrico con uno a benzina, che dal 1997 a oggi ha venduto più di un milione di esemplari, soprattutto in Nord America e Giappone. “Scarsa la diffusione in Europa – rileva Calvanese - dove i consumi e le emissioni delle ibride vengono eguagliati dai migliori motori diesel, combustibile da tempo bandito sia a Washington che a Tokyo”. C’è poi l’auto totalmente elettrica “dotata solo di batterie che una volta scariche provocano l’arresto completo del mezzo e la digitazione del numero del soccorso stradale. A quel punto urge una presa di corrente domestica per ricaricarla in 6-8 ore, un po’ come fosse un cellulare”. Vi è poi quella denominata ibrida plug-in che combina un motore a combustione interna con un motore elettrico di maggiore capacità rispetto a quello di una semplice ibrida.
“Non è il mercato che chiede l’auto elettrica ma è la politica a pretenderla”, commenta Calvanese che evidenzia come oggi il presidente Barack Obama “da buon liberal col pallino per l’ambiente è convinto che i consumatori americani abbracceranno il progetto di auto elettrica a condizione che il governò aiuti le case a sostenere gli alti costi per produrle”. Così dall’autunno 2008 è cominciato lo stanziamento di 25 miliardi di dollari in forma di prestiti alle industrie che promettono di abbassare i consumi dei loro modelli, mentre Obama ha annunciato finanziamenti anche alle fabbriche che progettano e costruiscono batterie, “tassello indispensabile per completare la filiera dell’elettrico che nella mente del presidente darà la leadership dell’auto agli Usa negli anni a venire”. Ma la sbronza dell’auto elettrica sta coinvolgendo anche l’Europa. La Francia ha proclamato per mezzo del ministro dell’Energia l’obiettivo di due milioni di veicoli elettrici venduti entro il 2020 e la Germania ha presentato un piano per promuovere l’acquisto di un milione di auto elettriche entro lo stesso anno. “Se la politica di mestiere spara numeri a casaccio e incrocia le dita, altrettanto, ma con maggiore accortezza, fanno gli evanescenti uffici di statistica”, sottolinea Calvanese che prosegue: “A fare compagnia agli entusiasmi della politica ci pensano le case automobilistiche, specializzatesi sempre più in produzione di annunci e proclami” riguardanti prototipi di cui nessuno sa se verranno realizzati o meno.
Nonostante gli sforzi fatti nella tecnologia, i problemi dell’auto elettrica restano gli stessi di dieci anni fa: l’autonomia e la ricarica. “Una batteria al litio installata sul telaio di una normale berlina – scrive Calvanese - non assicura più di 150 chilometri di autonomia e una ricarica completa da una presa domestica avverrà in non meno di sei ore. Per di più la macchina costerà tra il 30 e il 40 per cento in più del corrispettivo modello a benzina”. Allora, perché nonostante queste controindicazioni il mito dell’auto elettrica seguita a riscuotere successo? “Forse questa è un’epoca che ha voglia di un po’ di rivoluzione, rossa o verde che sia – commenta Calvanese -. Oggi sembra non bastare più l’approccio riformista, l’innovazione. Non basta studiare lo scorrere di un grafico che ci ricorda che una macchina prodotta negli anni settanta inquinava come cento odierne, o che le motorizzazioni Euro 4 hanno abbattuto quasi del 90 per cento le emissioni inquinanti delle vecchie Euro 0. Non basta dire che una piccola berlina con motorizzazione diesel di oggi consuma quasi 4 litri per 100 chilometri (ossia quanto l’ibrida Toyota Prius), ha emissioni di CO2 sotto la soglia dei 90 grammi per chilometro e un prezzo accessibile. Non basta dire che la diffusione di un motore diesel di nuova generazione, una tecnologia già pronta, già collaudata, disponibile al costo di un leggero sovrapprezzo, produrrebbe un calo di consumi di petrolio e una diminuzione sostanziosa delle emissioni inquinanti. Evidentemente non basta. Migliorare non basta. Se il rivoluzionario crede che il mondo stia davvero per collassare allora non basta. Se i ghiacciai davvero si sciolgono, sei i pinguini davvero emigrano e se è vero che tra le foche si diffonde la piaga del divorzio, allora quello che di buono già c’è e che potrebbe aiutarci a migliorare le cose non basta. Se tutto questo sta davvero accadendo allora non resta che gridare ‘vive la révolution’, ‘vive l’auto electrique’”.

(Emanuele Gatto) 14 dic 2009 19:40

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